ALLE sei del pomeriggio del 17 ottobre scorso venne a prendermi a casa in automobile l'amico Franco Cortese che avrebbe dovuto tenere una conversazione su una mostra di pittura alla Sala Gemito nella Galleria Principe di Napoli.
Da Posillipo a Piazza Dante, fra strappi, spinte e infrazioni veniali e mortali, impiegammo circa un'ora.
Piazza Dante faceva paura. Era piena come un barile di sardine marcite con i vermi sopra.
Era un letamaio dagli odori più sconcertanti. Il mio amico si avvilì; ma grazie al consiglio di sventolare sotto gli occhi del guardamacchine una banconota di cinquanta mila lire, uscì, per compressione, un posto; come nell'Inferno che alcuni predicatori del Seicento (famigerato fra tutti Padre Giacomo Lubrano) misuravano in chilometri, dichiarando che le pareti fossero elastiche e, quindi, per compressione, ci sarebbe stato posto per tutti.
Usciti che fummo dall'automobile ci sgranchimmo un po’ e respirammo alcune centinala di ettolitri di ossido di carbonio, che come incenso saliva al cielo, diretti alla Galleria Principe di Napoli.
Il percorso fu travagliato da una ciurmaglia estasiata di vivere fra colori da terzo mondo. Ma quella che era stata una delle più gradevoli vie di Napoli, via Pessina, con gli effluvi gastronomici dei raffinati cibi di Dagnino, con la vivacità del Bellini e il capolinea intellettuale del libraio Lubrano era un sogno di ieri.
Il vigile, che tentava di dirimere il traffico, mi fece sinceramente pena.
La bella Galleria era ridotta a un orinatoio buio e tetro con alcuni fantasmi osceni remiganti negli angoli. Il mio cuore era in pezzi; non prevedendo che sarebbe stato triturato appena giunti alla sala Gemito; dove la conversazione del mio amico divenne un bla-blà ridicolo e assurdo assordato dallo spaventoso rumore proveniente dal Museo.
E i quadri del pittore? Roba di altri tempi, futilità di chi finge d'ignorare che la realtà ha maciullato il cuore della terra.