«I teatri di Napoli. Dal rinascimento alla fine del secolo decimottavo” - Scritti di storia letteraria e politica. Volume VII. Quarta “Edizione riveduta e accresciuta- Bari, Giuseppe Laterza & Figli, 1947-
Pagg.173 - 174, 181, 227 – 230
CAPITOLO XIV
“IL TEATRINO DI CORTE DI RE CARLO E LE COMPAGNIE FILODRAMMATICHE”
Quando re Carlo venne nel regno, aveva ai suoi stipendî una compagnia comica, che recitava nel teatrino di corte: ma in sul finire del 1734 il conte Zambeccari di Bologna, ben pratico di questa materia, riceveva l’incarico di proporne un’altra, e propose quella di Gabriello Costantini, discendente di più generazioni di comici e che, per essere stato dodici anni ai servigi di Filippo V, era soprannominato «I’Arlecchino di Spagna ». La compagnia del Costantini si componeva allora di undici persone, cioè, oltre lui, della «prima donna» Marta Focari detta la « Bastona» (della quale discorre il Goldoni nelle sue Memorie); del « primo amoroso » Giovanni Verder; del «Pantalone » Giambattista Festa: del «Brighella» Andrea Nelva; della « seconda donna » Francesca Dima; del «secondo moroso» Carlo Veronese (sul quale, padre di «Camilla» e di «Carolina », si possono vedere notizie non solo nel Goldoni, ma nel Rousseau e nel Casanova); del « Dottore Andrea Pasquale; della «servetta » Angela Nelva; della « terza amorosa » Pierina Veronese e del «terzo amoroso » Giuseppe Pasquale. E quasi tutti costoro (salvo forse una delle donne, che fu sostituita dalla Caterina Cattoli) lo accompagnarono a Napoli, sulla fine del 1735, stipendiato dal re con mille doppie pel teatrino privato, nel quale il Costantini eseguiva una novantina di recite all’anno. Il Bartoli, che scrisse la biografia del Costantini, narra di un memorando segno di favore che gli dimostrò una volta re Carlo, dicendogli queste scandite parole: « Voi siete un pulito Arlecchino!» […]
XV
L’OPERA BUFFA E LE CANTERINE.
Il nuovo re, provvedendo al dramma musicale con la costruzione del gran teatro accanto al regio palazzo, e alle recite in prosa col suo teatrino di corte, trascurava e disdegnava i «teatri piccoli», ossia i Fiorentini, il Nuovo e la Pace, che egli non frequentò mai, nemmeno i primi due, nei quali pur si vedeva sin dal tempo dei viceré il «palco reale». La sua sollecitudine per le cose di quei teatri, dimostrata per mezzo dell’uditore dell’esercito, non concerneva l’arte, ma solamente il buon costume. E, invero, le numerose canterine «napoletane» e «toscane», che colà si esibivano, somigliavano affatto alle chanteuses di caffé concerto dei giorni nostri (N.d.R.: siamo nel 1947), e producevano i medesimi effetti morali, che, se possono essere giudicati faccende private dai costumi nostri, tali non erano per l’infante don Carlo, severo e timorato, inteso a governare paternamente, che si faceva carico di coscienza delle coscienze dei suoi sudditi. […]
XIX
IL TEATRO DI PROSA
NELLA SECONDA METÀ DEL SETTECENTO.
Il teatrino di corte rimase vuoto per qualche anno dopo la partenza di Carlo Borbone [N.d.R.: nel 1759 quando, alla morte del padre Filippo V re di Spagna, re Carlo si trasferì a Madrid lasciando al suo posto il figlio Ferdinando IV di soli nove anni], perché il figliuolo Ferdinando era un fanciullo sui nove anni, al quale conveniva meglio giocare le farse coi burattini, o i drammi sacri col «presepe» e col «sepolcro » (infatti, i forestieri che lo visitavano vedevano in una stanza del palazzo reale sospesi a un chiodo Pulcinella e tutta la brigata comica, e accanto un teatrino portatile). Per questa ragione, e perché in ogni caso non si voleva più sentir parlare a corte di comici di mestiere o dell’arte («de los trufaldines», come li chiamava re Carlo), fu ricusata l'offerta, che faceva da Venezia il 20 ottobre ’59 Antonio Sacco, della sua «comica compagnia», da servire «in quel modo medesimo che ella ebbe l’onore di servire per più di due anni la Maestà fedelissima del re di Portogallo e la sua reale famiglia». Il Sacco (nipote, come sappiamo, di un comico napoletano) divideva allora con «Carlino», ossia con Carlo Bertolazzi, gli onori della maschera di «Arlecchino»; e, non accettato a Napoli, restò a Venezia, a combattere in prima linea nelle lotte teatrali tra il Goldoni e Carlo Gozzi.
Quando il nuovo re si fece alquanto più grandicello, si tornò alle recite di filodrammatici, e nel carnevale del ’63 fu chiamata a corte una compagnia, composta press’a poco di quei medesimi dilettanti che convenivano in casa del duca di Maddaloni; tutte «persone civili», e tra essi il Lorenzi e Domenico Macchia, «scrivanotto di camera»: compagnia che venne presa a stipendio mensile, scrivendo i «soggetti» per le recite il Cirillo e il Lorenzi. II Lorenzi ebbe poi l’esclusivo incarico della «invenzione dei soggetti» per queste «commedie all’improvviso», e la scelta e la direzione degli attori, tra i quali il Buonocore rappresentava il tipo di «Marco Pacchietta», il Villani di «Don Greco», il Banci di «Don Vitantonio Patacca», lo Stasina di «Locuzio».Talvolta si alternavano anche recite «premeditate», come nel ’70 quella della Claudia del Liveri, e che alcuni sopravvissuti della compagnia di costi avevano preparata pel convento di Monteoliveto e portarono poi a corte; e le altre disposte dal Lorenzi, che rifece sul gusto delle scene napoletane il Buqiardo del Goldoni e compose ]’Inganno «sul gusto liveriano assai migliorato». E un altro gentiluomo dilettante comparve a corte, il principe di Canneto, che nel ’70 vi fece rappresentare una sua propria commedia, rinnovando ne!la mimica le meraviglie del Liveri. Vi si tentò anche la tragedia in prosa, nel’ 72, con la Merope del Maffei, ridotta a quella forma da Michele Sarcone, e nel ’73 col Teodosio, originale del Sarcone, ma né l’una né l’altra piacquero; tanto che i Tanucci ordinò che si smettessero, perché (egli sentenziava) « il gusto italiano non è stato mai per le tragedie fin da secoli remoti, onde è stato introdotto un terzo spettacolo, che è l’opera», ed era vano ricorrere alla tragedia in prosa, che «non è stata bene accolta dalle nazioni estere». E tutte coteste recite si davano non solo nel palazzo reale di Napoli, ma anche nei teatrini che si erano formati nei «siti reali», e particolarmente nelle ville di Caserta e di Portici. Dal ’70 in poi, miglioratesi le Compagnie di prosa nei teatri della città e sembrando alquanto rancide le improvvisazioni e le altre recite dei filodrammatici, di frequente i comici dei teatri pubblici recavano a corte i drammi più applauditi e pei quali si era destata la curiosità regale; nel ’75, si formò perfino una compagnia mista dei comici del Nuovo e di quelli dei Fiorentini, che fu impegnata per un anno a tenersi pronta a ogni ordine del re. Senonché l’anno dopo il re, attratto dalle lodi che aveva udito fare di un melodramma buffo, si recò Senz’altro al Nuovo per ascoltarlo: «évènement nouveau (scriveva il Galiani alla D’Epinay) depuis I’établissement de la monarchie chez nous»; e così, rotto il ghiaccio, i sovrani cominciarono a frequentare le recite dei «teatri piccoli», sebbene dapprima in incognito, e non già nell’antico palco dei viceré, ma in nascosi palchetti laterali. Ciò dette ii tracollo alla filodrammatica dei teatrini di corte, che venne languendo e si spense negli anni seguenti; sebbene fosse ancora abbastanza coltivata tino allo scorcio del secolo nelle case private. Nelle quali solamente si continuà a permettere la recita di talune opere sacre, e in particolare della Passione di Cristo, di cui fu mantenuto il divieto pei teatri pubblici: come nel 1779 fu promulgata una prammatica contro i resti di sacre rappresentazioni de! giovedì e de! venerdì santo, che si facevano in parecchi luoghi del Regno, «per mezzo di varie sceniche comparse e spettacoli popolareschi, alcuni coll’andar nudi per le piazze e per le strade battendosi a sangue, altri con rappresentare i sagri misteri della Passione, vestiti chi da Cristo e chi da giudei e chi da manigoldi». […]